Daniel Uche ha due immagini fisse che lo perseguitano da quando era bambino. La prima è il ricordo di quella maledetta notte in cui gli è stato comunicato che avrebbe dovuto lasciare gli studi per imbracciare un fucile e lottare per la causa del Biafra. L'altra è ambientata nel mezzo del deserto del Sahara, a metà del suo viaggio a piedi verso la Libia. «Avevo fame, ero stanco e non so dire di preciso il nome del posto in cui mi trovavo. Ricordo che c'era un ragazzo che stava mangiando farina di manioca. Io mi sono avvicinato e gli ho chiesto di lasciarmi ripulire la ciotola che stava usando, così da poter mangiare almeno le briciole. Ma lui non ha voluto e ha preso la sabbia del deserto per pulire la ciotola, così che io non ne potessi mangiare. Avevo 15 o 16 anni, è passato molto tempo, ma questa scena, questa umiliazione, mi torna spesso in mente». Daniel oggi ha 31 anni, vive a Trento, frequenta il 5° anno di un liceo economico-sociale e ha una vita, all'apparenza, del tutto tranquilla. Lavora aiutando persone con disagio mentale e fa volontariato con un'associazione locale. Fa l'arbitro di calcio e tifa Milan. Ma le ferite che si porta dentro da quando era un bambino soldato, tra gli 11 e i 15 anni d'età, sono profonde. E hanno bisogno di una vita intera per essere curate. Daniel ha deciso di raccontare la sua storia ai ragazzi delle superiori che hanno partecipato all'ultimo Festival dei diritti umani di Milano. E ha accettato poi di rivelare altri aspetti di quello che ha vissuto in un'intervista a Osservatorio Diritti. Daniel è nato nel Biafra, in Nigeria. Una terra marchiata da una guerra violenta, costata la vita a oltre 1 milione e 200 mila persone tra il 1967 e il 1970. Un conflitto proseguito poi in maniera strisciante, con la contrapposizione tra forze governative, da una parte, e il Movimento per la realizzazione dello Stato sovrano del Biafra (Massob), dall'altra. Il reclutamento del ragazzo tra le forze armate del Massob risale alla morte del padre, avvenuta quando lui aveva 10 anni e andava alle elementari. Daniel era il primo figlio della famiglia e, proprio per questo, è stato costretto a proseguire la lotta del padre, che ricopriva un ruolo importante all'interno del Movimento. Una notte, quando Daniel aveva 11 anni, si sono presentati alla porta i dirigenti del Massob. «Volevano che io sostituissi mio padre all'interno del Movimento, che mi concentrassi nelle attività del campo militare e lasciassi la scuola. La mamma all'inizio ha provato a dire che dovevo almeno finire le medie, ma i dirigenti insistevano. Dicevano che avrei fatto una carriera politica. E alla fine mia mamma accettò». E fu il principio di un periodo terribile, che gli avrebbe tolto per sempre l'innocenza della sua età. «Io non ero d'accordo, ma non potevo rifiutarmi. Sono andato nella mia stanza e ho cominciato a piangere ininterrottamente. Mi sono ammalato per tre giorni. Ero distrutto. Il mio unico desiderio era proseguire gli studi. A un certo punto, quando il mio maestro si accorse che non avevo ancora pagato la retta della scuola e me ne chiese la ragione, io risposi che avrei pagato presto. Ma la realtà era che stavo per lasciare la scuola e mi vergognavo con i miei compagni per questo». «Noi eravamo un'arma importante»: il tema dello sfruttamento dei bambini Daniel non ha avuto scelta. «Sono andato a Lagos. Poi, per tutto il tempo in cui sono rimasto con il Massob, sono stato sottoposto per un paio di volte l'anno all'addestramento militare, che si svolgeva in un campo nei boschi lontano dalla città e che durava 2 o 3 mesi. Ci insegnavano a usare il fucile. Dicevano che noi bambini eravamo un'arma importante». In quel campo c'era una ventina di persone fisse, tra cui quattro bambini (Daniel era il più piccolo e vedeva la mamma un paio di volte l'anno). Molti altri, invece, passavano là solo periodi brevi, per poi tornare a studiare, senza essere strappati alle loro famiglie, come era accaduto a lui. Il primo compito dei ragazzini era quello di scoprire le abitudini dei nemici dichiarati e dei traditori della causa. Dovevano diventare amici dei loro figli, introdursi nelle loro case, guadagnarsi la loro fiducia. Delle vere e proprio missioni in incognita. «Imparavamo come scoprire il nemico nascosto, ci usavano come spie», spiega Daniel senza girarci troppo intorno. Tutto questo, naturalmente, aveva poi dei drammatici risvolti nel momento in cui gli indipendentisti decidevano di entrare in azione. «Spesso io conoscevo dei bambini e riuscivo a scoprire come avvicinarmi al loro padre. Una volta, per esempio, ho scoperto qual era l'orario migliore per avvicinarci e attaccare la casa di un traditore della causa del Biafra e alla fine siamo riusciti a bruciare la casa del papà di un bambino che avevo conosciuto. In generale, noi bambini eravamo in grado di dire quando ci si poteva avvicinare a una casa e altre informazioni utili per poter intervenire». I bambini soldato avevano poi altri due compiti. Il primo era quello di partecipare alle manifestazioni pubbliche organizzate dal Massob per rivendicare la creazione dello Stato del Biafra. Il secondo, invece, era un incarico strettamente militare. «All'inizio imparavamo a usare il fucile e da quando avevo 13 anni iniziarono a farmi partecipare alle azioni, a sparare. Funzionava pressappoco così: attaccavamo noi, facevamo imboscate, oppure difendevamo i biafrani minacciati che ci chiedevano aiuto, intervenivamo se ci avvertivano di un attacco in corso. Se eravamo in inferiorità numerica, invece, chiamavamo i rinforzi». Daniel racconta tutto, come chi ha il bisogno di buttare fuori anni di sofferenze per liberarsene. Ma ad un certo punto, di fronte a una domanda, si ferma a pensare. Ci sono certe risposte che è difficile dare. «Hai mai ucciso qualcuno?». «Guarda, non lo so. In quelle situazioni si spara a raffica, delle persone muoiono, ma poi non si sa chi è stato a sparare. Sì, è possibile che io abbia ucciso qualcuno. Ma non lo posso sapere con certezza». La situazione era così assurda da aver annullato qualunque "anticorpo" nel ragazzo. «Ho cominciato a fare qualunque cosa senza sentire senso di colpa. E quando vedevo un bambino che moriva pensavo che era fortunato, perché non avrebbe dovuto vivere ancora».