PIZZICARMS

L'infanzia va alla guerra

Dal Darfur alla Colombia il dramma planetario dei bambini soldato è la sintesi di tutte le possibili e più estreme violazioni dei diritti umani.

Ho trascorso sette anni con i ribelli del Fronte rivoluzionario unito. Sette anni in cui morte, violenza, distruzione era la normalità: per me, come per tanti altri miei coetanei costretti a combattere una guerra assurda. Ora la mia vita non ha più senso. Non riesco a trovare una spiegazione a tutto quello che è successo, a perdonarmi le atrocità che ho commesso, a dimenticare le persone che ho ucciso"
. A raccontarmi la sua storia seduto all'ombra di un albero, accanto alla sua capanna, in un villaggio nelle vicinanze di Koidu, nel nord est della Sierra Leone, è Moses, oggi diciottenne, con un passato da bambino-soldato. Una storia simile a quella che, qualche tempo dopo, ho risentito in un'altra parte dell'Africa, in Uganda dilaniata da un conflitto che va avanti da oltre venticinque anni. A ripercorrerla, questa volta, è Rosy, una ex combattente, confinata in un campo per gli sfollati interni nella zona di Pader. Ha 17 anni, di cui 6 trascorsi con i guerriglieri dell'Esercito di resistenza del Signore. Oggi vive con due figli, nati da altrettanti stupri, è in attesa del terzo; quando le chiedo se ha partecipato ai combattimenti e se ha ucciso mi risponde, piangendo: "Sì, ma non so quante persone, perché io sparavo con il bazooka. Tutto questo è un fardello pesante da sopportare, ma devo andare avanti per queste creature".
Quelle di Moses e Rosy sono due storie simbolo, che incarcano il tragico destino di migliaia di altri bambini costretti a fare la guerra. Bambini di otto, nove, dieci anni, che imbracciano un fucile, sparano, uccidono, muoiono sui campi di battaglia. Bambini trattati da schiavi, usati come spie o mandati a saltare sulle mine. Dall'Uganda al Sudan, dalla Colombia al Myanmar (ex Birmania), quella dei bambini-soldato è una piaga di dimensioni planetarie, difficile da estirpare e in continua espansione. Le cifre parlano di oltre 300mila adolescenti che sono impiegati, sia dagli eserciti governativi sia dai gruppi paramilitari e dalle fazioni armate irregolari, nei conflitti in atto in diversi Paesi dei cinque continenti.
Per cercare di contrastare questo fenomeno, che secondo gli esperti è destinato a crescere ancora nel prossimo futuro, le Nazioni Unite e le organizzazioni che si occupano della difesa dei diritti dell'uomo, negli ultimi anni hanno adottato una serie di misure giuridiche. Nel febbraio del 2002 è entrato in vigore il Protocollo opzionale alla Convenzione sui diritti dell'infanzia, che stabilisce a 18 anni il limite d'età per partecipare alle ostilità o essere reclutati in ogni esercito; il Protocollo finora è stato ratificato da 77 governi (l'Italia lo ha fatto con la legge del 46 dell'11 marzo 2002).
Inoltre, nel luglio dello stesso anno è divenuto operativo il Tribunale penale internazionale (istituito con il Trattato di Roma del 1998) che definisce "crimine di guerra" l'arruolamento di bambini al di sotto dei 15 anni negli eserciti e nei gruppi armati, sia nei conflitti interni che in quelli internazionali. L'Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), con la Convenzione numero 182, adottata da 150 governi, ha preso una netta posizione sull'argomento, inserendo "il reclutamento forzato o obbligatorio di minori ai fini di un loro impiego nei conflitti armati" tra le "forme peggiori di lavoro minorile". Nel luglio 2005, poi, le Nazioni Unite hanno approvato una risoluzione, la 1612, che prevede un'attività di monitoraggio e di comunicazione al Consiglio di sicurezza sull'utilizzo dei bambini-soldato e su altri abusi subiti dai minori in tempo di guerra. La risoluzione prevede anche la possibilità di prendere misure concrete contro questi Paesi responsabili di gravi violazioni dei diritti dell'infanzia. Le principali sanzioni previste sono l'esclusione da ogni istituzione governativa degli Stati coinvolti nelle violazioni, il congelamento delle risorse finanziarie, l'embargo delle armi.
Però, spesso, le opportunità per fare dei concreti passi avanti, come ad esempio l'avvio di programmi per il recupero dei bambini-soldato e di procedimenti giudiziari nei confronti dei reclutatori, sono ostacolate dall'operato dei governi che vengono meno agli impegni assunti. Anche se il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha condannato il ricorso ai bambini nei conflitti e ha messo sotto osservazione coloro che li utilizzano, alcuni Stati membri hanno di fatto impedito che si arrivasse a punire i responsabili. È evidente, dunque, che la normativa internazionale da sola non può bastare a tutelare il diritto alla vita dei bambini. Occorre anche una volontà superiore che li preservi dalle barbarie dei conflitti armati. Fintanto che i fucili saranno i signori delle paure e dei destini di interi popoli, i bambini continueranno a essere vittime predestinate. I bambini non sono responsabili delle guerre, eppure la guerra li deruba della loro infanzia.
Ma perché si ricorre sempre più massicciamente ai bambini-soldato? Le motivazioni sono molteplici. A cominciare dalla natura delle guerre che, da alcuni anni a questa parte, da scontri tra Stati sono diventate conflitti etnici, religiosi, sociali, nazionalistici. A combatterle, dunque, non sono più eserciti regolari, ma bande armate che non fanno differenza tra militari e civili. Nei 14 anni trascorsi dalla fine della Guerra Fredda (dal 1990 al 2003), si sono registrate 59 guerre di una certa entità in 48 aree diverse, e solo in quattro di queste si è trattato di un conflitto tra Stati. Nella sola Africa, per restare nel continente più martoriato, attualmente vi sono oltre una decina di "guerre civili" che vedono contrapposti fazioni, gruppi paramilitari, bande ribelli. Conflitti che si spengono in un Paese per esplodere improvvisamente, almeno così sembra, in un altro, senza soluzione di continuità. Questo stato di "guerra permanente" richiede un costante ricambio di uomini per rimpiazzare le perdite e, sempre più spesso, eserciti governativi e frange di opposizione armata ricorrono ai bambini. I piccoli guerrieri vengono reclutati perché costano poco in termini di addestramento, non chiedono di essere pagati, e per la loro immaturità fisica ed emotiva sono facilmente controllabili e condizionabili: con la paura e la violenza possono essere indotti a ubbidire ciecamente e costretti a commettere i crimini più atroci.
Il reclutamento avviene in Paesi, aree, regioni economicamente poveri: è qui che si possono trovare bambini orfani, abbandonati, appartenenti alle cosiddette minoranze etniche. L'arruolamento, nella maggior parte dei casi, avviene con la forza; solo una ristretta minoranza di bambini, invece, secondo le statistiche, si arruola volontariamente. Ma è bene tenere presente il contesto nel quale una tale decisione può essere presa. Povertà e caos sociale, ovvero, mancanza di mezzi di sostentamento e di alternative, legami familiari assai deboli o addirittura inesistenti, desiderio di vendetta in caso si sia subìta violenza o l'abbiano subìta i propri cari: sono solo alcune tra le motivazioni che inducono tanti bambini e bambine ad andare incontro, diciamo consapevolmente, agli orrori della guerra. La miseria sociale, le crisi politiche a ripetizione e la violenza profondamente instillata in certe società sono riuscite a trasformare il ricorso alle armi, per questi fanciulli alla ricerca di certezze e con la necessità della sopravvivenza, in un fattore di speranza e di senso di identità che dona loro uno status, quello di guerriero: avere un'arma significa possibilità di mangiare, e sapere di poterla usare è sempre meglio di vivere nella paura e nell'impotenza.
Nella Repubblica Democratica del Congo, ad esempio, nel 1997, circa 5000 bambini hanno aderito all'invito, fatto via radio, di arruolarsi nell'esercito: erano tutti senza famiglia, ragazzi di strada. In Uganda, nel 1986, l'Esercito di resistenza nazionale ha reclutato circa 3000 bambini, molti dei quali in età inferiore a 16 anni, di cui 500 erano ragazzine. Per la maggior parte si trattava di orfani che consideravano l'esercito una sorta di "famiglia". Non è raro il caso in cui i bambini si offrono di combattere, "quando ritengono che ciò possa proteggere la propria famiglia, o perché la si pone al riparo da atti di rappresaglia da parte delle forze militari presso cui si presta servizio o perchè si stabilisce una sorta di scambio di favori, per cui un gruppo armato da un lato acquisisce un combattente e dall'altro si impegna a fornire protezione ai suoi familiari". Se poi la povertà e l'emarginazione sono una piaga insanabile, si può anche arrivare al paradosso che siano gli stessi genitori a consegnare i propi figli ai soldati, nella speranza che abbiano qualche possibilità di sopravvivere. E quanto è successo, ad esempio, in Myanmar, nel 1990, quando circa 900 bambini con meno di 15 anni vennero"affidati"dalle loro famiglie ai guerriglieri karen perché questi garantivano vestiti e due pasti al giorno. In qualsiasi modo vengano arruolati, e qualunque siano le motivazioni, i bambini devono sottostare alle spietate regole della guerra, che prevede, oltre ad una disciplina ferrea, punizioni fisiche per ogni insubordinazione e l'esecuzione sommaria per i disertori. Come se si trattasse di veri e propri soldati.
In molti casi, i minori arruolati vengono coinvolti intenzionalmente in situazioni di violenza estrema, allo scopo di renderli insensibili alla sofferenza. In Afghanistan, Colombia, Mozambico e Nicaragua, ad esempio, bambini e adolescenti sono stati costretti a macchiarsi di atrocità ai danni dei propri familiari o dei membri della comunità in cui vivevano. In Sierra Leone, nel 1995, i guerriglieri del Fronte unito rivoluzionario, per "preparare" alla guerra i bambini che avevano rapito, li hanno costretti ad assistere o a partecipare a torture ed uccisioni di loro parenti. Quindi, li hanno mandati in altri villaggi a compiere gli stessi massacri. Per vincere ogni minima resistenza di questi piccoli combattenti, il loro dolore e la loro paura, i ribelli, nella maggior parte dei casi, ricorrono all'uso di droghe, unito al ricatto e alla manipolazione della loro mente. La sostanza più usata per "addomesticare" la volontà dei bambini è l'erba "khat", molto usata nel corso del conflitto tra Etiopia e Eritrea. Conosciuta anche con i nomi di "Miraa", "Mairungi" o "Giat", è una droga costituita dalle foglie fresche e dai giovani virgulti della cosiddetta "Catha Edulis", una pianta che cresce spontaneamente nell'Africa orientale e nell'Arabia meridionale. In pratica, è uno stimolante che elimina le sensazioni di fame, sonno, stanchezza e, per questo motivo, viene usata in guerra. La sua somministrazione può portare ad una grande loquacità, ad una risata incontenibile e, a volte, anche ad uno stato di semicoma. L'uso costante provoca spesso forme di "Delirium tremens". Per diventare soldati a tutti gli effetti, i bambini seguono un periodo di duro addestramento, che solitamente non supera i quattro o cinque mesi, per imparare ad usare le armi e per entrare nella mentalità della vita militare.
Un altro fattore che ha favorito il crescente utilizzo di minori nelle guerre è la proliferazione delle cosiddette "armi leggere". Si tratta di armi non molto sofisticate dal punto di vista tecnologico (e, quindi, a basso costo) che possono essere adoperate da un singolo individuo: fucili, mitra, pistole, lanciagrane portatili, mine antipersona. Con il necessario addestramento, dunque, anche un bambino di otto o nove anni può usare, ad esempio, un "AD-47", più noto come Kalashnikov, il fucile d'assalto di fabbricazione russa attualmente prodotto in circa 70 milioni di esemplari in 14 paesi, o in "M-16", fabbricato in 8 milioni di pezzi negli Stati Uniti. Sigle e numeri dietro cui si nasconde un business colossale. Secondo le ultime stime, sarebbero 650-700 milioni le armi leggere che circolano nel mondo, con un giro d'affari di oltre 28 miliardi di dollari. E sono state proprio le armi leggere a decidere le sorti di 46 delle 49 guerre combattute in ogni angolo del pianeta negli anni Novanta: guerre che, secondo i dati delle Nazioni Unite, hanno provocato la morte di 5 milioni di persone, di cui metà bambini. Da una ricerca promossa nell'ambito della campagna "Control Arms", lanciata da Amnesty International, Oxfam International e International Actional network on Small Arms (Iansa), è il risultato che i Paesi del G8 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti)inviano equipaggiamento militare, armi e munizioni in alcuni Paesi, come Sudan, Myanmar, Repubblica Democratica del Congo, Colombia e Filippine, e queste forniture contribuiscono a gravi violazioni dei diritti umani. Le stime parlano di almeno 1.249 società coinvolte nella produzione di armi leggere, in circa 90 Paesi. Attorno alle armi leggere è nato un mercato clandestino che ha come sbocco principale l'Africa, diventata negli ultimi anni un vero e proprio crocevia dei traffici internazionali. Ovviamente è impossibile stabilirne con esattezza l'entità, ma secondo le stime di "Small Arms Survey", 30 milioni di armi alimentano i conflitti nella sola area dell'Africa sub-sahariana, mentre per l'Onu 8 milioni circolano nella parte occidentale del continente nero. L'80% circa di questo arsenale è in mano a ribelli, guerriglieri, mercenari; solo i 16% viene utilizzato dagli eserciti regolari. La maggior parte delle guerre ha come obiettivo il controllo del territorio, che consente lo sfruttamento delle materie prime per proprio tornaconto o per assecondare gli interessi di potenze straniere. Una realtà che diventa paradosso quando si parla di Africa, un continente che non ha eguali per ricchezza del sottosuolo, ma che proprio per questa ricchezza ha pagato un prezzo terribile.
Petrolio, oro, diamanti, minerali rari, legname pregiato sono sinonimi di guerre, sangue, morti. Il loro sfruttamento è costato la vita di tanti uomini, donne e bambini. Controllare il continente nero, dunque, vuol dire gestire un immenso serbatoio di materie prime. Alcuni esempi possono dare l'idea degli interessi in gioco. La produzione di cobalto dell'Africa copre il 40% del fabbisogno mondiale; il cromo (Sudafrica, Zimbawe) rappresenta il 61%; i diamanti (Congo, Botswana e Sudafrica) il 42%; la produzione di uranio (Niger, Namibia) il 16%; quella dell'oro (Sudafrica) il 24%. Sempre il Sudafrica produce l'80% di platino, ma ampie riserve di metalli appartenenti a questa famiglia di minerali si trovano anche in Burundi, Etiopia, Kenya, Sierra Leone e Zimbawe. Dal sottosuolo sudafricano si estrae il 18% della produzione mondiale di titanio e il 14% di manganese. Inoltre, i Paesi del golfo di Guinea (Angola, Camerun, Ciad, Congo-Brazzaville, Gabon, Guinea equatoriale, Nigeria, Sao Tomè e Principe) sono così ricchi di giacimenti petroliferi da meritarsi il nome di"nuovo Golfo Persico". Molte guerre in atto in questo continente, dunque, sono figlie della volontà di controllare materie prime di importanza strategica, che interessano potenze industriali e lobbies internazionali. La guerra è sempre associata all'immagine di uomini armati che combattono.
Ma dietro quest'immagine si nasconde una realtà drammatica: il coinvolgimento di migliaia di giovane ragazze e adolescenti, come testimoniato dalla storia di Rosy. Secondo il rapporto di "Save the Children", "Forgotten Causalities of War: Girls in Armed Conflict" (le vittime dimenticate della guerra: le bambini nei conflitti), nel mondo oltre 120.000 bambine sono impiegate nei gruppi armati. Una cifra che corrisponde al 40% di tutti i minori (300.000) arruolati negli eserciti regolari e non. I Paesi in cui questo fenomeno è più inquietante sono lo Sri Lanca, dove 21.500 bambine sarebbero coinvolte nel conflitto in corso, la Repubblica Democratica del Congo, dove si stima che circa 12.500 giovani ragazze siano nelle forze armate, e l'Uganda, dove 6.500 bambine sono state rapite dai ribelli dell'Lra e inserite nei loro ranghi. Piccole soldatesse sono presenti anche negli eserciti e nei gruppi armati in Colombia, Filippine, Pakistan e Timor Est. Le bambine però, oltre a combattere, rispetto ai loro coetanei maschi, hanno anche altri compiti: si occupano della sussistenza dei militari, lavorano come portatrici, raccolgono informazioni, fanno da corrieri ma, soprattutto, vengono usate come "schiave sessuali" e date in mogli ai comandanti. Una realtà drammatica poco conosciuta, così come poco conosciuto è il problema del coinvolgimento delle bambine nei conflitti.
Ma c'è anche un'altra piaga che colpisce le bambine coinvolte nei conflitti: quella della prostituzione. Il dilagare della povertà, la disgregazione delle famiglie e delle comunità e l'insicurezza, spesso spingono le adolescenti, anche le più piccole, a vendere il proprio corpo, in cambio di cibo o di protezione. Una ricerca condotta dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e dalla sezione inglese di Save the Children, ha riportato il caso di una bambina rifugiata liberiana che si è prostituita per l'equivalente di 10 centesimo di dollaro, una cifra con la quale avrebbe potuto acquistare al massimo un po' di frutta o una manciata di noccioline. Molto spesso, si legge nel documento, le giovani concedono prestazioni sessuali in cambio di alcuni biscotti o di un pezzo di sapone. In molti casi, poi, la prostituzione viene praticata anche nei campi profughi, e non è raro che questo turpe mercato continui e venga alimentato anche dai soldati dei contingenti di pace.
A questo proposito esiste un dossier, il "Rapporto Machel", del 1996, da cui risulta che in 6 su 12 Paesi presi in esame, l'arrivo delle forze di peacekeeping è coinciso con un aumento della prostituzione minorile. Per molto tempo quella delle bambine-soldato è stata una questione sottovalutata. E questo per almeno quattro ragioni, come ha evidenziato l'Unicef nel rapporto 2005 sulla condizione dell'infanzia nel mondo: "Il numero delle bambine-soldato è solitamente sottovalutato; le donne e le bambine che si arruolano o sono costrette ad arruolarsi nelle forze armate non sono considerate "veri soldati"; molte di queste bambine sono erroneamente classificate come donne perché all'epoca del disarmo, della smobilitazione e della reintegrazione hanno più di 17 anni e spesso hanno dei figli; si pone l'enfasi sui maschi armati per attirarli nelle zone di disarmo o smobilitazione".
Inoltre, in passato, la violenza e lo stupro venivano addirittura considerati come una conseguenza tragica ma inevitabile dei conflitti, e quindi non punibili, a differenza della torture e dell'omicidio annoverati tra i crimini di guerra. Ciò non soltanto ha avuto l'effetto di rendere "invisibili" queste bambine, ma ha anche prodotto una conseguenza ancora più aberrante: una volta terminati i conflitti, rimangono escluse dai programmi di smobilitazione, coordinati dall'Undp, il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, dalla Banca Mondiale e dall'Undpko. Come ha evidenziato il rapporto di Save the Children, "Forgotten Causalities of War: Girls in Armed Conflict", il successo di un programma di smobilitazione spesso si misura sul numero di armi recuperate piuttosto che sull'effettivo recupero degli ex combattenti. Il compito del reinserimento dei bambini generalmente viene affidato all'Unicef o alle organizzazioni internazionali non governative che, però, non hanno a disposizione le risorse economiche necessarie. Inevitabilmente, a pagare sono proprio i bambini.
Soltanto in anni recenti si è cominciata a prestare una maggiore attenzione alla condizione delle donne nei conflitti armati. La svolta è stata l'istituzione del Tribunali ad hoc per l'ex Yugoslavia (Itcy), nel 1993, e il Ruanda (Ictr), nel 1994. Lo Statuto del Icty menziona esplicitamente lo stupro tra i crimini contro l'umanità, mentre quello del Tribunale di Arusha sul Ruanda elenca tra gli atti che lo stesso tribunale ha competenza di giudicare"stupro", prostituzione forzata e ogni forma di aggressione sessuale". I processi celebrati da questi due tribunali hanno già riconosciuto lo stupro come atti di tortura, grave violazione delle convenzioni di Ginevra e crimine di guerra, nonché come strumento di genocidio.
Nel 2000, poi, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione, la numero 1325, in cui si afferma "il ruolo importante che svolgono le donne nella prevenzione e nella soluzione dei conflitti e nel consolidamento della pace". Su questa scia, anche la Corte penale internazionale, entrata in vigore il1°luglio 2002, all'articolo 7, ha incluso i reati di violenza sessuale, comprendendo in questa voce lo stupro, la schiavitù sessuale, la gravidanza forzata e l'induzione alla prostituzione, tra i crimini contro l'umanità. Nel gennaio 2004 la Corte ha avviatola sua prima inchiesta sugli stupri, le violenze e le persecuzioni compiuti in Uganda su donne e bambine dai ribelli dell'Esercito di resistenza del Signore, e ha emesso le autorizzazioni di arresto per cinque leaders del gruppo armato, tra cui il capo indiscusso, Joseph Kony, e il comandante in seconda, Vincent Otti. Ma, nonostante questi importanti passi in avanti dal punto di vista giuridico, la comunità internazionale non è riuscita ancora a mettere a punto delle politiche di sostegno a favore delle bambine-soldato.
Giuseppe Carrisi
Presidente di Pizzicarms
30/10/2008